Ernesto Razzano intervista Donato Zoppo
La Premiata Forneria Marconi è una delle eccellenze del panorama attuale e della storia della musica italiana. Donato Zoppo è autore per Editori Riuniti di un libro che ne ha ricostruito la vicenda artistica e umana. Forse il rock inteso in senso ampio in Italia arriverà con un po’ di ritardo, rispetto ad altri paesi europei, e gli anni Settanta ne sono la testimonianza per la grande quantità di band che affolleranno la scena, in un crescendo di fermenti artistici, sociali e culturali con cui bisognerà fare i conti. Per capire l’unicità di band come la PFM, gli Area, le Orme, è necessario fare un viaggio sia in quell’Italia, in quel contesto musicale che sbocciava vigoroso, che in Europa dove il panorama musicale si andava modificando rapidamente, provando a lasciarsi alle spalle l’esperienza psichedelica che aveva così fortemente caratterizzato la seconda metà dei Sessanta. Come scopriremo tanti orfani dei Beatles proveranno a lastricare nuovi percorsi sonori. Per un viaggio simile dunque non ci poteva essere guida migliore di Zoppo, che con la sua conoscenza e la sua passione per la musica e la sua storia ci darà in questa chiacchierata delle coordinate per andare poi ad arricchire la nostra sapienza musicale.
Qual è lo scenario musicale e rock in particolare in Italia, quando si presenta sulle scene la PFM?
La Premiata Forneria Marconi nasce nell’estate del 1970 dalle ceneri dei Quelli, un formidabile complesso beat molto noto nelle sale d’incisione milanesi per la bravura e la professionalità. Hanno suonato con Battisti, De Andrè, Mina, Celentano, Bruno Lauzi e tanti altri, sono impeccabili ma sentono di dover uscire dallo studio, di dover esprimere il loro amore per le nuove sonorità che arrivano dall’Inghilterra. Il gruppo infatti ha maturato una tale intesa strumentale da sapersi cimentare perfettamente nel repertorio sia di amatissimi gruppi hard rock/blues come Led Zeppelin, Deep Purple, Uriah Heep e Cream, ma anche dei nuovissimi gruppi del rock sinfonico/progressivo come King Crimson, Yes, Jethro Tull e Emerson Lake & Palmer. Lo stimolo più forte per la nascita della PFM è rappresentato proprio dall’avvento nel panorama internazionale del nuovo rock inglese: più maturo, capace di superare la semplicità della psichedelica e confrontarsi con il repertorio classico, con il jazz, il folk, l’elettronica e rompendo gli steccati della forma-canzone.
Più di una volta il batterista della PFM Franz di Cioccio ha affermato: “dal 1970, dalla fine dei Beatles, ci siamo sentiti come orfani e abbiamo cominciato a suonare la nostra musica”. Ecco, la separazione dei Beatles e la nascita di tante correnti e sottogeneri, in primis quella del progressive-rock, sono l’elemento più forte in quel momento storico. In Italia non c’era ancora stata una scuola rock all’altezza di quello straniero: alla fine degli anni ’50 il primissimo rock ‘n’ roll di Celentano e Ricky Gianco, negli anni ’60 il beat di Equipe 84 e Dik Dik, ma tutto scimmiottava l’estero in modo troppo palese. Fatta eccezione per nomi come New Trolls, Orme e Formula 3, veri grandi pionieri del rock italiano, mancava una proposta che potesse rappresentare l’eccellenza: la PFM colma questo vuoto, sarà poi affiancata da grandi come Osanna, Banco, Area, Arti & Mestieri e tantissimi altri.
Come si forma la band? l’incontro, il progetto…
Come dicevo l’embrione della PFM è nei Quelli: una delle numerosissime formazioni del beat, influenzate da Beatles, Rolling Stones, Kinks, Who e Spencer Davis, come altre centinaia di band dell’epoca. A differenza degli altri, i Quelli suonano moltissimo in studio come turnisti e acquisiscono una capacità esecutiva senza eguali in Italia, una palestra simile a quella di Jimmy Page prima di fondare i Led Zeppelin. Ad esempio Battisti si innamora di loro: da Acqua azzurra acqua chiara a La canzone del sole, passando per Il tempo di morire e Pensieri e parole, sono loro a suonare nei pezzi di Lucio… Erano così bravi che lui poteva chiedergli qualunque cosa, soprattutto suonare in diretta e improvvisare senza spartito. Consapevoli del loro talento, Franz Di Cioccio (batteria), Francone Mussida (chitarra), Giorgio “Fico” Piazza (basso) e Flavio Premoli (tastiere) si guardano intorno e incontrano un giovane violinista/flautista di Brescia: Mauro Pagani. Amano tutti il rock inglese e vogliono proporre un nuovo sound alla King Crimson in Italia, una cosa mai sperimentata, puntando molto sulla dimensione strumentale. Dall’ottobre del 1970 fino all’estate del 1971 provano assiduamente tutti i giorni per modellare il sound che hanno in mente e quando vincono il Festival di Viareggio con Osanna e Mia Martini tutta l’Italia si accorge di loro. A novembre 1971 esce il singolo Impressioni di settembre e La carrozza di Hans, aprono i concerti di Jethro Tull, Yes e Deep Purple e diventano subito famosi.
Quali sono i motivi essenziali per cui la band porta una ventata di novità e innovazione?
Bisogna premettere due cose: la PFM ha avuto un coraggio senza eguali in Italia, e per due motivi. In primis, la scelta prevalentemente strumentale: nel 1970 (tanto per capire il clima da terzo mondo: a Sanremo vincono Celentano e la Mori con Chi non lavora non fa l’amore…) siamo ancora un paese legato al bel canto e al moralismo serpeggiante nella canzone, per cui puoi ben capire quanto sia stato difficile per loro affrancarsi da tutto ciò, e questo riguarda anche tutti i loro colleghi del periodo. In secondo luogo, ai tempi dei Quelli il gruppo lavorava molto con le serate: proponendo brani famosi – secondo la nota formula che alternava “lenti” e “ballabili” – riuscivano a sbarcare il lunario, ma con un repertorio proprio e inedito sarebbe stato davvero molto difficile. Eppure fecero il grande salto, e ebbero ragione: l’Italia era pronta per gradire questa nuova musica. Il primo lp Storia di un minuto, uscito nel gennaio 1972, sale in cima alle classifiche: merito di un pezzo leggendario come Impressioni di settembre (con testo di Mogol e per la prima volta l’uso del sintetizzatore Moog), merito soprattutto di una miscela musicale che rompe con la canzone, si dilata e ingloba influenze classiche, acustiche, rock-jazz, rinascimentali, con una grande potenza melodica e una forza strumentale mai ascoltata in Italia.
Se dovessi raccontare la PFM con l’apporto di Mauro Pagani e quella successiva a lui, come riassumeresti le differenze essenziali ? (se ci sono ovviamente…..).
Si pensa solitamente che l’uscita di Mauro Pagani abbia causato la fine della PFM: indubbiamente Pagani abbandona la band nel 1976, in un momento in cui il rock progressivo è già in crisi e il punk sta già avanzando, così come la disco music. Tuttavia dopo la sua uscita la Premiata tira fuori un disco eccellente come Jet Lag, un gioiellino folk-jazz (da riscoprire!) come Passpartù e poi nel 1979 lavora con De André. Considerato che la forza compositiva della PFM era nel duo Mussida-Premoli, l’uscita di Pagani non ha modificato granchè la band: cambia però tutto dal vivo, vista la bravura del violinista, il suo carisma, ma anche il suo essere un elemento di collegamento con la realtà sociale e politica del tempo. A mio avviso è stata molto più invalidante l’uscita di un genio come Premoli nel 1980… infatti i dischi della decade sono quelli più deboli e ordinari per il gruppo.
E’ forse la rock band italiana più conosciuta al mondo, tra l’altro sin da subito provò anche la via internazionale…
È sicuramente la rock band italiana più nota al mondo: basta dire che ha suonato nei maggiori festival americani nel 1974, è stata l’unica ad apparire nella classifica di Billboard e ancora oggi è l’unica band italiana che quando suona all’estero non lo fa nei locali o nei club ma esclusivamente in teatri, auditorium, stadi e arene, oppure nei grandi rock festival. In Giappone, Messico e USA la loro popolarità è sempre alta, e sono stati il primo gruppo italiano a suonare in Corea. Ho tanti corrispondenti dall’estero che puntualmente mi mandano foto e reportage dai tour stranieri: è davvero commovente l’amore che la PFM raccoglie in tutto il mondo.
Grazie alle tue conoscenze possiamo spaziare, anche se sinteticamente, in tanti aspetti del prog rock. Mantenendoci su quello italiano, dall’inizio degli anni 70, possiamo dire che nel nostro paese c’è una solida scena che si lega, in parte, ai fermenti reali di quegli anni a livello internazionale… Sei autore e curatore anche di una pubblicazione che ne raccoglie il percorso.
Sì, ultimamente ho partecipato alla compilazione di Prog 40, un voluminoso testo della Applausi Editore che sta andando molto bene anche all’estero. Amo molto il rock progressivo perché è stato capace di raccogliere in sé diverse anime: è come una perfetta unione di tanti opposti, è un genere maschile e femminile, chiaro e scuro, potente e delicato, e poi è stato uno strumento per me assai formativo. Oggi ascolto senza problemi qualsiasi proposta musicale proprio perché il prog mi ha aperto la mente e mi ha insegnato la coesistenza di diverse aree espressive. Inoltre è una musica che ha dato tanto, soprattutto in Italia: spesso si dice che il prog ha attecchito da noi per la nostra inclinazione melodica e classicheggiante, ma c’è anche da ricordare che questa musica ha trovato terreno fertile nel momento in cui l’Italia pullulava di piccole Woodstock in ogni dove, dunque ha rappresentato uno strumento di liberazione individuale e collettiva. La musica non va mai separata dall’ambiente in cui nasce e il prog italiano è stato la colonna sonora di un decennio di grande liberazione per i giovani italiani. Credo che il grande lascito di questa musica sia stato un insieme di album all’altezza del rock internazionale: basta ascoltare PFM, Banco, Orme, Osanna, Balletto di Bronzo, Museo Rosenbach per accorgersene.
PFM e Area hanno in comune il legame con il movimento degli Anni 70 a cui si legheranno in diversi modi, tappe che spesso ritornano alla memoria sono le esibizioni a Parco Lambro o al Vigorelli…
Hanno anche in comune la figura di Demetrio Stratos: al di là dell’amicizia con lui e della crescita comune nella Milano beat degli anni ’60, si narra che più di una volta la PFM abbia pensato a Demetrio come suo vocalist… Gli Area a mio avviso sono stati il progetto più importante dell’Italia anni ’70, e sono stati talmente legati a quel periodo da diventare irripetibili e ineguagliabili. A differenza della PFM, che era una rock band ben calata nelle dinamiche del mercato discografico, gli Area sono stati una factory creativa che ha proposto musica “alternativa”, eppure entrambi i gruppi avevano lo stesso pubblico e si esibivano negli stessi contesti, ad esempio il Parco Lambro. Gli Area però erano la voce del movimento, la PFM invece non era molto amata dalle frange più radicali vista la sua presenza in USA e in classifica… Aggiungo che il secondo – e attuale – bassista della PFM Patrick Djivas proviene dagli Area (con loro ha registrato il leggendario Arbeit Macht Frei) e Mauro Pagani ha collaborato spesso con loro dopo il 1976.
Anche a livello internazionale ovviamente gli anni Settanta ci portano un fiorire di gruppi tra rock e progressive incredibile, volendo tracciare un percorso ideale, fatto dei nomi essenziali, in base anche all’apporto che diedero, quali band sono a tuo avviso quelle fondamentali ? O se vuoi anche degli album indispensabili?
Il gruppo progressive per eccellenza a mio avviso sono i King Crimson: se prog-rock è musica in progressione, capace dunque di superare steccati e confini, allora la figura di Robert Fripp ne è l’indubbio artefice. Basta segnalare tre dischi, legati a tre diverse fasi del gruppo: l’esordio In the court of the Crimson King (1969), uno dei più importanti album della storia del rock; Larks’ Tongues In Aspic (1973) e Discipline (1981), tre capolavori diversissimi eppure accomunati dalla genialità del leader e dalla incatalogabilità della proposta. Mi piace citare anche i Van Der Graaf Generator di Peter Hammill, una delle figure più importanti della cultura del secondo ‘900 per i suoi testi, che costituiscono un corpus poetico straordinario, purtroppo ancora non conosciuto del tutto. Ovviamente i Genesis, il gruppo più amato dai prog fans per i loro dischi con Peter Gabriel, e gli Yes, irraggiungibili per fantasia e virtuosismo. Spendo qualche riga in più per la scena di Canterbury: in questa placida cittadina inglese nacquero gruppi come Soft Machine, Caravan, Gong, Hatfleid And The North, Matching Mole… se non li avete mai ascoltati, fatevi questo grande regalo, magari cominciando dal favoloso In the Land of Grey and Pink (1971) dei Caravan, da ascoltare in religioso silenzio campestre…
Una parte invece della tua ricerca che vedrà la luce a breve riguarda un personaggio della musica italiana come Lucio Battisti, artista che forse, soprattutto per quanto riguarda la parte musicale, in alcuni suoi album in particolare, è ancora ampiamente sconosciuto e sottovalutato, suona strano dirlo perché la sua popolarità è indubbia…
Ho sempre amato Battisti e lo amo sempre di più giorno dopo giorno: è un enigma, un mistero, un artista davvero esoterico, perché tutti lo conoscono ma sono in pochi ad averlo davvero capito. Questa è la cosa che me lo fa amare di più: è come i Beatles, se ascolti un suo disco per l’ennesima volta scopri sempre qualcosa di nuovo…
Non ho scritto un testo biografico su di lui ma uno studio specifico sul suo album Amore e non amore, del 1971: non tutti lo ricordano ma è il primo, vero 33 giri di Lucio, visto che i due precedenti erano semplici raccolte antologiche. Inoltre è un concept album, con quattro canzoni rock/blues e i quattro misteriosi brani strumentali con l’orchestra e i titoli lunghissimi… Un disco enigmatico e poco noto, registrato nel 1970 ma pubblicato solo nel 1971, suonato con l’allora neonata PFM, amatissimo dai cultori del rock anni ’70 ma pressoché ignorato dai battistiani più superficiali. È un disco che racchiude in sé molti episodi, il brano Dio mio no fu censurato, la copertina è ancora oggi fonte di discussione (la donna nuda ritratta sarà o no la moglie di Battisti?…). Uscirà a marzo 2011 con la prefazione di Giorgio Piazza, le testimonianze di tanti musicisti e conoscitori battistiani e rivelerà cose ignote anche ai battistofili doc…
DONATO ZOPPO (Salerno, 1975): giornalista e incorreggibile divulgatore di rock progressivo, jazz e musica di confine, scrive per le testate Jam, Wonderous Stories, Totemblueart e L’Idea. È tra i fondatori del popolare web-magazine MovimentiProg, collabora con il sito di musica italiana L’Isola, ha un visitatissimo blog di consigli musicali dal titolo Chi va con lo Zoppo… ascolta buona musica.
È autore di alcuni libri come Premiata Forneria Marconi 1971-2006: 35 anni di rock immaginifico (Editori Riuniti 2006), La Musica dei Lingalad (Bastogi 2008), ha partecipato a Racconti a 33 giri (2003), 100 dischi ideali per capire il rock curato da Ezio Guaitamacchi (Editori Riuniti 2007), Prog 40 – quarant’anni di progressive-rock nel mondo (Apllausi Editore 2009) e I 1000 concerti che vi hanno cambiato la vita curato da Ezio Guaitamacchi (Rizzoli, 2010). Sta per uscire con la Aereostella di Franz Di Cioccio e Iaia De Capitani un suo volume su Lucio Battisti.
È il conduttore di due fortunati radio-show di Radio Cttà BN: Rock City Nights e A Day In The Life. Scrive racconti zen come Stop Over Bombay (secondo al Premio Freequency – MEI 2005), coordina il progetto TranSonanze, collabora con Vocidentro